The Decemberists
The Decemberists
di Eddy Cilìa

CARTA CANTA, soprattutto quella di “Billboard”, ma talvolta inganna e in special modo dacché il mercato della musica si è frammentato all’estremo e persino negli USA, ad azzeccare la settimana giusta, può capitare di andare al primo posto in classifica vendendo poche decine di migliaia di copie. Se è vero come è vero che ancora deve venire certificato disco d’oro, doveva essere quello che accadeva a inizio 2011 al predecessore di “What A Terrible World, What A Beautiful World”. Numero uno in un battito di ciglia, “The King Is Dead”, tredici posizioni più su del migliore piazzamento raggiunto due anni prima da “The Hazards Of Love” ma il vero miracolo lo aveva fatto quello: un concept e anzi di più (o di meno, fate voi), una rock opera involuta, ridondante e a tratti impenetrabile, senza brani particolari in grado di promuoverla sulle radio ed era insomma come se i Queen avessero, a loro tempo e mutatis mutandis, fatto il botto con un “A Night At The Opera” orbo di una Bohemian Rhapsody. Prima che i cultori dell’uno o dell’altro gruppo si indignino per il raffronto: non poche le recensioni degli Azzardi dell’Amore che citavano il complesso del fu Freddie Mercury, in compagnia di una buona dozzina di altri evidenti referenti e tutti rigorosamente britannici a eccezione dei Rush. Peraltro canadesi e non statunitensi, peraltro culturalmente “europei” fino al midollo. Bizzarra traiettoria fino a quel punto quella di Colin Meloy, firmatario unico della quasi totalità del repertorio della band di Portland: da novello Jeff Mangum dai ritornelli più efficaci che insidiosi (non vi era chi non accostasse all’inizio i Decemberists ai Neutral Milk Hotel), nonché Morrissey all’americana, ad aspirante progster. “The King Is Dead” mentre apparentemente tornava indietro (solare l’omaggio agli Smiths del titolo) in realtà rilanciava e nel farlo cambiava le carte in tavola, apparecchiandola – fondamentalmente – country-rock. In tal senso era però pure chiusura di cerchio e ritorno alle origini più remote: quei Tarkio nei quali il nostro uomo aveva militato all’alba dei suoi vent’anni, prima di lasciare per l’Oregon il natìo Montana, e la cui aspirazione più grande era essere degli altri Uncle Tupelo; poi il “5 Songs EP” con cui nel 2001 debuttavano i Decemberists, nulla più che grazioso e di cui oggi, non rappresentasse il prologo di quello che nel dipanarsi si è evidenziato come un Grande Romanzo, non si rammenterebbe nessuno. […]

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