The Replacements
The Replacements
Roberto Curti

Avrebbero potuto essere il più grande gruppo rock della loro generazione… se solo avessero voluto. Ma hanno preferito bruciarsi, sabotarsi, autodistruggersi. Diversamente, non sarebbero stati fedeli a se stessi, nel bene e nel male. A oltre vent’anni di distanza dall’ultimo album è uscito l’EP Songs For Slim, registrato per beneficenza. Ladies and gentlemen, meet THE REPLACEMENTS.

S’ODE A DESTRA uno squillo di tromba. «Hello… this is the Minneapolis police... the party is over!». A sinistra risponde un altro squillo: «Hey, fuck you, man!». Tra schiamazzi e urla, il poliziotto insiste imperterrito: «If you, if you all just grab your stuff and leave there won't be any hassle. The party's been closed. The party is over with, grab your stuff and go, and nobody goes to jail». E poi: One-two-three-four!, e il gruppo parte come un treno che deraglia a tutta velocità verso il nulla.
I resoconti dei testimoni aiutano a tratteggiare vividamente la scena. Minneapolis, gennaio 1982. Il locale è l’Harmony Building tra la 3° e la 2° Avenue North del Warehouse district, nella zona centrale della città, al quinto piano di un palazzone; è in corso un party con tre gruppi rock del posto, e il rumore si sente a isolati di distanza. A fare tutto quel chiasso sono quattro tizi scalmanati e decisamente poco raccomandabili. Il più giovane tra loro ha appena qundici anni.
Non sono in molti a poter dire «Io c’ero», quella volta. Lori Barbero delle Babes in Toyland; Dave Pirner dei Soul Asylum (è lui che manda affanculo lo sbirro, tra parentesi); il tecnico del suono Terry Katzman, il benemerito che ha la prontezza di spirito di registrare l’irruzione della polizia. Un’altra ventina di spettatori, o poco più.
Eppure, quei trenta secondi catturati all’Harmony Building sono uno dei momenti più entusiasmanti della storia del rock: un’istantanea di vita vissuta che diventa catarsi collettiva e, magia del copia-incolla, introduce e completa il brano che segue. Che, sebbene registrato in altro luogo e altro momento, sembra davvero prendere forma lì, in quell’istante, come un insolente sberleffo all’autorità in forma di musica. «Kids won’t listen / To what you’re sayin’» canta (canta? sbraita!) il frontman, e in sole due frasi chiama a raccolta gli adolescenti di ogni tempo e luogo.
Sarebbe potuta diventare un inno, Kids Don’t Follow. E dopotutto lo è stata, anche se solo per alcune migliaia di ragazzotti del Minnesota. E per questi pochi ma agguerriti adepti i Replacements sono stati – e lo spiega bene il bel documentario di Gorman Bechard Color Me Obsessed (vedi “Blow Up” n. 178) – ben più di un semplice gruppo rock di cui cantare a squarciagola i brani. Il culto che ha accompagnato i quattro di Minneapolis è qualcosa di profondamente devoto e irrazionale. Amare i Replacements significa amarne non solo – troppo facile – l’attitudine rock’n’roll e le canzoni uscite dalla penna di un songwriter sopraffino come Paul Westerberg. Amare i Replacements significa anche (anzi, soprattutto) abbracciarne gli eccessi, le bizzarrie, le bestialità autosabotatorie che ne hanno contrassegnato la schizofrenica carriera, dagli esordi fino alle porte del Successo con la “S” maiuscola, quel successo appena sfiorato e brutalmente mancato che è coinciso con una brusca e dolorosa disgregazione. Amare i Replacements significa accettarne in toto l’essenza di cocciuti, irrimediabili perdenti. E andare incontro alla sconfitta assieme a loro, ripetendo a se stessi che in fondo è così che doveva andare. One-two-three-four… […]


…segue per 14 pagine nel numero 180 di Blow Up, in edicola nel mese di Maggio 2013 al costo di 6 euro.

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