Thurston Moore
Thurston Moore
di Andrea Amadasi

“...Dopo trent’anni, quello era l’ultimo concerto dei Sonic Youth. Lo SWU Music & Arts Festival si svolgeva a Itu, appena fuori San Paolo, in Brasile, a diecimila chilometri da casa nostra nel New England. Era un evento di tre giorni, trasmesso dalla tv sudamericana e anche online in streaming, con grosse aziende tipo Coca-Cola o Heineken a fare da sponsor. Gli artisti di punta erano i Faith No More, Kanye West, i Black Eye Peas, Peter Gabriel, gli Stone Temple Pilots, Snoop Dogg, i Soundgarden, gente così. Probabile che i meno famosi fossimo noi. Uno strano posto dove finire le cose...”

Per la cronaca era il 14 novembre 2011 e queste sono le parole con cui Kim Gordon, nella sua autobiografia Girl In A Band (Minimum Fax 2016), toglie subito le castagne dal fuoco, lasciando ben pochi dubbi circa le sorti di una tra le pochissime band davvero fondamentali degli ultimi decenni. Qualche tempo prima, a rottura già conclamata, la loro etichetta (la Matador) si preoccupava di far sapere con un comunicato stampa che sia Gordon che Moore sarebbero stati sul palco in quell’ultimo tour ma che progetti comuni a seguire non erano certi. Un modo necessariamente patetico di prendere tempo. Perché nella realtà ognuno aveva già girato pagina con sano pragmatismo e la probabile consapevolezza che i Sonic Youth avessero esaurito la propria ragion d’essere già da qualche tempo e a prescindere dai traumi di un divorzio, sia pure quello che coinvolgeva la spina dorsale della band. Tutti, tra le altre cose, hanno continuato a fare musica, chi in maniera molto discreta come Lee Ranaldo e la stessa Gordon, chi mantenendo inalterata la propria posizione sotto i riflettori come Thurston Moore, ancora legato in sodalizio a Steve Shelley. “Rock N Roll Consciousness” è il suo nuovo disco e per esso rimando alle recensioni, mentre è doveroso spendere due parole su questa intervista, che è nata per caso via mail qualche giorno prima del concerto che Moore ha tenuto a Reggio Emilia il 4 febbraio scorso insieme a Charles Hayward (BU#226), è proseguita faccia a faccia ma in maniera abbastanza informale il giorno stesso del concerto e si è conclusa tra un patema e l’altro (con Moore in perenne movimento tra Europa, Asia e America) qualche giorno dopo aver ascoltato l’album. È dunque una sorta di “montaggio” di vari momenti nei quali si è cercato di approfondire qualche aspetto generale, dall’elezione di Trump ai fatti del terrorismo internazionale (ma non erano ancora avvenuti gli episodi di Londra e San Pietroburgo), e poi ovviamente alla musica, con sullo sfondo alcune domande sui Sonic Youth che sono state prontamente disinnescate. “Il personaggio” si è rivelato inaspettatamente molto meno personaggio del previsto ma, evidentemente, ci sono ferite che fanno fatica a cicatrizzarsi, e tutto sommato va bene così. Ringrazio infine Olivier Manchion per la pazienza e la disponibilità a far sì che questa intervista avesse luogo. […]

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