Tin Machine
Tin Machine
di Christian Zingales

Detto con vero rispetto per entrambi, Bowie è come il maiale: non si butta via niente. Lo stesso ovviamente potremmo dire di qualsiasi grande classico, anche gli album più estemporanei o meno riusciti o proprio traballanti sono sempre manifestazioni dell’inconfutabile autorevolezza dei maestri, opere intercettabili in vari livelli di intrattenimento ed analisi. Per esempio i dischi parecchio bruttarelli degli anni Zero, “Heathen” (2002) e “Reality” (2003), sono comunque un canzoniere bowiano dove intercettare l’eventuale gingillo e in ogni caso un segmento dell’opera di un artista importante. Per chi scrive poi i vituperati tre album Eighties, “Let’s Dance” (’83), “Tonight” (’84) e “Never Let Me Down” (’87), non hanno ombre particolari, tre dischi di pop leggero ma di buon gusto, senza cali decisivi, consequenziale rilascio al tesissimo rush della trilogia “berlinese” più uno che in “Low”, “Heroes” (’77), “Lodger” (’79) e “Scary Monsters” (’80) aveva rappresentato il picco del percorso bowiano. Inevitabilmente però questi degli ’80 sono lavori legati mani e piedi al famoso effimero di quel decennio, plastic e video friendly, precisi nel rappresentare quel tipo di stereotipo di quel tempo e di quell’estetica, e dopo “Never Let Me Down” Bowie inizia a sentirsi un po’ chiuso in un angolo. Soprattutto non ha più particolari stimoli musicali. Anni dopo ricorderà quella fase: “Stavo meditando di mollare tutto, fare il recluso, avevo guadagnato un sacco di soldi quindi potevo permettermi di ritirarmi a dipingere e fare sculture, lavorare su roba visuale, fare tipo Gaguin a Tahiti. Ma poi quando sarei tornato alla musica, a 60 anni? Per cui sono contento che improvvisamente sia arrivata una cosa come i Tin Machine, che ha riacceso la mia passione, ha ricaricato le mie batterie. Guardo affettuosamente a quegli anni per questo motivo”. […]

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