Townes Van Zandt
Townes Van Zandt
di Daniele Rosa

Ho appena iniziato a vedere chiaramente la mia strada
Ed è semplice: se mi fermo, cado
Per il suo dolore posso spendere una lacrima – una soltanto, e questo è tutto
(For the Sake of the Song)

Solo all’uomo che arriva sul bordo del precipizio possono crescere le ali sulla schiena
(Nikos Kazantzakis)

Vivere è volare
La vita è quasi tutta una perdita di tempo, cantava in una delle sue canzoni più famose Townes Van Zandt, che trascorse la sua considerando sprecato ogni momento non impiegato a cercare “quella nota” – quella che gli avrebbe permesso di entrare in connessione con un’altra persona, una soltanto, e di cambiarle l’esistenza per sempre – e la concluse il primo gennaio del 1997, oltre dieci giorni dopo una brutta caduta dalle scale che si era rifiutato di curare con altre medicine che non fossero l’alcool, e quarantadue anni esatti dopo la scomparsa del suo eroe, Hank Williams. John Townes Van Zandt, nato a Fort Worth, Texas, il 7 marzo 1944, fu un uomo difficile, un compagno inaffidabile, un padre mediocre e il più grande folksinger del Ventesimo secolo. Magro e duro, i capelli scuri sempre troppo lunghi, aveva l’aria di un bandito, proprio come Pancho, uno dei protagonisti dell’unica canzone da lui scritta capace di arrivare al numero uno in classifica – anche se cantata da altri. Parlava di una coppia di banditi, braccati dai federales messicani, in fuga fino al giorno in cui Pancho si sveglia e Lefty non si trova: è fuggito in Ohio dopo aver venduto l’amico, che viene impiccato il giorno stesso, tra i militari che ridono di lui e nessuno che presti attenzione alle sue ultime parole. La storia di Pancho finisce qui, non quella di Lefty, che finisce vecchio e solo a sopportare il peso degli anni e della coscienza, e per il quale Van Zandt ci invita ad avere pietà, e magari dire una preghiera: povero Lefty, cos’altro avrebbe potuto fare, in fondo? […]

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