We don't just play guitars
We don't just play guitars
di Beppe Recchia

[nell'immagine: black midi]

L’indirizzo è il 22 di Blenheim Gardens, a una decina di minuti dalla fermata della metro londinese di Brixton sulla Victoria Line. Lì, nascosto tra una sequenza di villini a schiera e un vecchio ufficio postale, si trova il Windmill, pub non particolarmente appariscente – ha più l’aria di una rimessa, specialmente se ci passate davanti di giorno – eppure da tempo considerato punto di riferimento e crogiolo del rinnovamento del rock britannico. Non è di certo una novità che i bar della capitale britannica “battezzino” una scena o un movimento e basterebbe tornare indietro con la memoria a gruppi come These New Puritans, Klaxons, Art Brut, accomunati nei primi anni duemila dalle frequentazioni alcoliche di un’altra zona meridionale, la non troppo lontana New Cross.
A Brixton, però, due fattori hanno finito per combinarsi a doppio filo e con risultati davvero interessanti. Da un lato, la politica di ingaggi del Windmill, che garantisce almeno sei serate di musica dal vivo alla settimana, può scrivere sul proprio sito “per quando ci piaccia spillare birre, è inutile che telefoniate per garantirci una trentina di ingressi se poi la vostra musica fa schifo”; è una dichiarazione più da fan accaniti che da imprenditori, e che proprio per questo fa sì che siano molti i gruppi a calcarne per la prima volta il piccolo palco e a diventarne regolari agitatori. Dall’altro, l’abituale presenza, tra gli avventori, di Dan Carey – produttore di MIA e Franz Ferdinand, ma anche titolare della Speedy Wunderground, etichetta il cui motto è registrare tutto in un solo giorno, rigorosamente dal vivo e possibilmente lontano dalla luce naturale – ha contribuito a dare il senso di una progressione organica dal concerto al disco, sapendo peraltro che Carey preferisce lavorare proprio con i gruppi che lo impressionano dal vivo. […]

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