W.G. Sebald
W.G. Sebald
di Maurizio Bianchini

A più di dieci anni dalla morte, nel 2001, pochi mesi appena dopo la pubblicazione di Austerlitz, il suo capolavoro, W. G. Sebald appare sempre di più un passaggio obbligato nel panorama letterario del nuovo millennio. Per aver legato saldamente tra di loro, come Nabokov, analisi, invenzione e critica del proprio tempo, nell’aspetto di attualità (ciò che ‘appare’) e di persistenza del passato (quel che ‘è’ in conseguenza di ciò che ‘è stato’), e per averlo fatto grazie alla scelta, etica ed estetica assieme, d’una prima persona debole e testimoniale e di una scrittura votata all’inabissamento - di se stessa (come mezzo); del racconto (come fine); della vita (come trama di un destino personale e collettivo) -, che ha tutta l’aria di costituire un canone nell’Afterlife del Romanzo. Non più mimesi aristotelica della realtà ma reperto autoptico della sua lenta dissoluzione e cronaca di un’agonia senza fine. “A memoryscape”, l’ha definita Michiko Kakutani, la temuta critica del New York Times, un mondo “nebbioso e crepuscolare di ricordi sfilacciati e di fantasmi che richiama alla mente il Bergman del Posto delle fragole, il Kafka delle disturbanti favole sulla colpa e dell’angoscia e naturalmente il Proust della Recherche”. Solo un paio di citazioni a sostegno: Kafka, che nei Diari (18 ottobre del ’21) scrive “ [la vita] è alla portata di ognuno in tutta la sua pienezza, ma oscurata nel profondo, indivisibile, lontanissima. E però non ostile, non riluttante, non sorda. Se la si chiama con la parola giusta, col giusto nome, viene alla luce. Questa è la natura della magia che non crea ma evoca”; Proust, che gli fa eco in Contro Saint-Beuve: “il passato non è ciò che l’intelletto ci presenta come tale. Come accade alle anime dei defunti in certe leggende popolari , ogni ora della nostra vita, una volta morti, trova rifugio e si nasconde in un oggetto materiale, restandovi prigioniera, prigioniera in eterno, finché non ci imbattiamo in esso. Noi la riconosciamo nell’oggetto, la evochiamo, e così viene liberata”. I due campi gravitazionali del canone - l’io narrante impersonale e la natura bradisismica del racconto - appaiono in realtà già all’opera, non ancora sintonizzati, in alcuni dei romanzi migliori degli ultimi decenni, da Il decano di Gustafsson a La macchia umana di Roth, spie di una vocazione a smarrirsi nella Cosa narrata, a naufragare in una realtà invasiva ed evasiva, opprimente e residuale, per scandagliarne i relitti alla luce della memoria. […]

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