Italiani Brava Gente
Italiani brava gente
Autore: Christian Zingales
 
PREZZO: 7,00€
Italiani Brava Gente

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"Italiani Brava Gente: Agiografie, psicologie, geografie della canzone italiana" è un viaggio sentimentale nei mari della canzone italiana. Cinquanta profili di artisti, una forma canzone a volte più tradizionale, altre più contaminata, un itinerario attraverso il quale si dipanano luoghi e impostazioni mentali, classici e culti, finendo per imbattersi nello spettro dell’italianità. [questo volume raccoglie i 34 articoli pubblicati nella rubrica “Italiani Brava Gente” più 16 inediti]
“I Libri di Harry #9 • 272 p.

Christian Zingales è nato a Cantù (Co) nel 1972. È giornalista musicale dal 1992 e dal 1998 scrive su Blow Up, rivista per cui si occupa del coordinamento redazionale. Collabora con XL, il mensile musicale di Repubblica. Nel 2002 ha pubblicato il manuale “Electronica” (Giunti), nel 2003 è stato tra i coordinatori e i collaboratori di “Rock e altre contaminazioni: 600 album fondamentali” (Tuttle Edizioni) e nel 2005 ha pubblicato “House Music 1985-2005” (Tuttle Edizioni).


“Italiani Brava Gente” is a sentimental trip into the sea of italian song. Fifty profiles of artists for a song structure sometimes traditional, sometimes advanced, a journey through places, tricks, classics, and cults – the italian spirit and character: italians do it better, and we mean it.
"I Libri di Harry #9" [2008] • 272 pages

Christian Zingales was born in Cantù (Co) in 1972. He has been a music journalist since 1992, collaborating with different magazines and newspapers like La Provincia, Rumore, Tutto, Acid Jazz, Il Giornale della Musica and Rodeo. He has been writing for Blow Up since 1998. In 2002 he published “Electronica” (Giunti Editore) and in 2003 was one of the contributors and coordinators of “Rock e altre contaminazioni: 600 album fondamentali” for Tuttle Edizioni. In 2005 he published “House Music”.

Di seguito l’Indice e un capitolo del libro

INDICE
IN ITALIA
ADRIANO CELENTANO
LOREDANA BERTÈ
RICCARDO COCCIANTE
CLAUDIO ROCCHI
ANTONELLO VENDITTI
NINO BUONOCORE
MAURO PAGANI
ENZO CARELLA
GIANNA NANNINI
IVAN GRAZIANI
JURI CAMISASCA
ALBERTO FORTIS
ALAN SORRENTI
ALBERTO CAMERINI
ALICE
CANZONIERE DEL LAZIO
ENZO JANNACCI
FABRIZIO DE ANDRÈ
LUCA CARBONI
AREA
DIANA EST
EUGENIO FINARDI
FLAVIO GIURATO
IVAN CATTANEO
SKIANTOS - FREAK ANTONI
SANREMO
PFM
MATIA BAZAR
ENRICO RUGGERI
RICKY GIANCO - GIANFRANCO MANFREDI
LUIGI TENCO
CCCP
PINO DANIELE
STORMY SIX
FRANCESCO DE GREGORI
FAUSTO ROSSI
LITFIBA
PAOLO CONTE
UMBERTO TOZZI
MIA MARTINI
ZUCCHERO
MINA
JAMES SENESE
PAVAROTTI
SQUALLOR
VASCO ROSSI
GINO PAOLI
LUCIO DALLA
FRANCO BATTIATO
LUCIO BATTISTI


RICKY GIANCO - GIANFRANCO MANFREDI
Milano è una gran Milano. Dalla Via Gluck al quadrilatero della moda, dalla sinistra extraparlamentare anni ’70 alla città tutta da bere degli anni ’80, dal compromesso storico ai girotondi. Innamorarsi a Milano, di Milano. La borghesia milanese dei buoni sentimenti in salotti ancora più buoni, il retrocontadino radical-chic meneghino, la politica all’ora dell’aperitivo, l’Inter, i Navigli, la Madonnina naturalmente. I percorsi, il privato che è sociale e poi il sociale che diventa troppo pubblico, privato forse del suo senso ma intimamente, infinitamente coreografico. O della (im)possibilità del concetto di comunità. O del conservatorismo quando è genetico e viene appaltato per noia a un progressismo dal sorriso a 32 denti, facce da destra mutate in una contrazione spietata, velenosa, fino a una consunzione di sé di proporzioni Lella Costa. Un quadro irritante se non fosse pervaso dalle venature di un sincero candore, di un’ingenuità di fondo che è spinta creativa prima esistenziale che artistica, certo accompagnata dalla contrazione del gesto, al peggio scortata da un rancore invincibile per l’incapacità di venire a patti con quelle contraddizioni che sono alla base di ogni vita umana, ma in grado spesso di bei rilasci poetici, dell’affiorare vero di una coscienza perlopiù dimenticata. E poi certo il mestiere, una Milano quella della borghesia di sinistra emersa, al crollo delle illusioni ideologiche dei ’70, con il riflusso del vero inizio degli ’80, che ha saputo perseguire un linguaggio, una sua coerenza stilistica, magari non sempre convincente, in una spirale che da Salvatores scende giù fino al ginomichelismo, ma sempre personale, connotante, in qualche modo - pur nei suoi tic e nella sua buffa predestinazione a convivere con la sindrome dello Zelig – autentica. Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi hanno cantato alla perfezione questo mondo. Anticipandolo, narrandone i prodromi, rappresentandolo nei loro stessi pregi e difetti. Non con il piglio satirico della esplosione di sé, ma con lo sguardo di chi di quel mondo fa parte e ha gli strumenti per metterne a nudo qualche vizio di forma, con il tono fluido e disinibito di un divertente dopo cena a buona gradazione alcolica. Con quella semplicità lombarda che avrà tutti i suoi difetti ma fa rima con purezza.
Ricky Gianco è una leggenda. Vero nome Riccardo Sanna, fondatore insieme a Celentano del Clan, autore di pezzi per Mina, Patty Pravo, Bobby Solo, Peppino Di Capri, e di Pugni chiusi dei Ribelli e di Pietre di Antoine, già ispirato e non derivativo solista post-beat con un paio di Sanremo all’attivo (vedi raccolte come “Ricky Gianco Show” e “Ricky Gianco Special”), inaspettatamente nel 1972 fonda l’etichetta alternativa Intingo e come quel biscotto nella tazza che è lo splendido logo pop della label si cala nella scena politicizzata dando una svolta roboante alla sua carriera. Produce album come “Il grande gioco” degli Albero Motore e “Lassa stà la me creatura” del Canzoniere del Lazio, entra via via nella parte e appena è pronto svela il nuovo sguardo. La metamorfosi gianchiana è una delle cose magiche successe alla nostra canzone. Da eccellente autore leggero si trasforma in grande domatore di un nuovo circo freak.
È il 1974 quando il vecchio concetto del Clan, infarinato in un po’ di factorysmo, genera la Ultima Spiaggia, nuova indie fondata insieme a Nanni Ricordi e Gianfranco Manfredi, che diventa presto insieme alla Cramps una delle principali strade verso il rinnovamento della canzone italiana. Il primo album esce nel 1975 con la ragione sociale proprio di Ultima Spiaggia e con il titolo di “Disco dell’angoscia”. Opera di un supergruppo formato da Gianco, Manfredi, Ricordi, Ivan Cattaneo, Sergio Farina, Hugo Heredia, Tullio De Piscopo e altri, il disco con il tempo sarà ricordato come il debutto del nuovo Ricky Gianco nonostante sia l’opera di una jam collettiva. Un album shock che comunque segna per lui un cambio di registro drammatico. Una pietra miliare dell’off-pop italiano. Costruito concept attorno alla vicenda di un uomo che precipita in un limbo nerissimo, apre con L’incidente, battito cardiaco, crash automobilistico, synth che disegnano gorghi infernali mentre in lontananza la voce di Manfredi annuncia che il guidatore è finito in coma profondo. Da lì è tutta una battaglia tra affondi proggy-pop e divertiti orrorismi, in un’altalena di cantilene infantili, cinguettii di fringuelli, requiem ecclesiastici, messe sataniche complete di voci rallentate e accelerate, cut-up radiofonici. Emerge netta la chiave ironica dello sguardo giancomanfrediano e anche come l’ironia sia in grado di incarnarsi in un gesto sonoro fondato, spesso ipnotico. Basta sentire come il Motivo d’angoscia 2 (5 quelli che punteggiano il lavoro), un fanciullesco coro da epopea nazi, sfoci nel Samba della tortura e della guerra, dove in felino brasiliano si inneggia a Auschwitz, e basta soprattutto dare un’occhiata al pregio della costruzione musicale complessiva. In pezzi cantati da Gianco come Rock della ricostruzione e Piacere e potere, fa capolino tutto il nuovo estro del cantante lodigiano, un mix sanguigno di macchiettismo pop e emotività melodica. Il contributo in sede di scrittura di Gianfranco Manfredi al “Disco dell’angoscia” è determinante. Lui esordisce da solista nel 1974 con “La crisi”, su etichetta Spettro. Il disco è una esilarante caricatura della canzone operaista, con titoli come Avanguardo, Sei impazzita per Marcuse, ‘Che Brambilla, ‘O piscatore rivoluzionario, E Giuseppe leggeva Lenin, che, in uno strepitoso birignao folky, fanno a pezzi i luoghi comuni della militanza col paraocchi, puntando già implicitamente il riflusso.
A completare un trittico ideale arriva su Ultima Spiaggia nel 1976 il secondo album di Manfredi, “Ma non è una malattia”, come a dire che dopo la crisi e l’angoscia arriva la diagnosi di una società che inizia a implodere. Dal Dixie big band sound dell’iniziale title-track al banjo country di Agenda 68, dal grottesco “uacciuari ari” del “non si paga” di Nonsipa’ a un capolavoro assoluto come Quarto Oggiaro Story, coi suoi mix anfetaminici di Barry White e tarantella, in un trionfo acido di trovate linguistico-sonore che ai pur bravi Elio e le Storie Tese servirebbero dieci vite, passando per pezzi più austeri come Puoi sentirmi, il leit motiv è sempre lo stesso, demolire contraddizioni e ipocrisie della militanza politica e cercare di aprire un nuovo percorso, privato e creativo. Nello stesso anno Ricky Gianco esplode. Si esibisce al Parco Lambro a colpi di porcodio. Su Intingo pubblica due album culto come “Braccio di ferro” e “Quel rissoso, irascibile, carissimo Braccio di ferro”, i due lavori più sperimentali di Gianco, ancora più del “Disco dell’angoscia”, croccanti fiabe acustiche speziate di plastici synth e cori infantili che raccontano la cosmogonia del leggendario Popeye (impersonato vocalmente da un Ricky in paradiso burlesco), perfetti per i figli dei ’70, per i bambini che in quel periodo muovevano i primi passi nella vita, e ideale cibo lisergico per i freak. Sempre nel ’76 il primo album a nome Ricky Gianco, “Alla mia mam…”, mandato in orbita dal boom melodico di Un amore. Un disco che con pezzi come Fango e repubblicA, mette a fuoco le differenze nella coppia d’assi, unita dalla costante collaborazione reciproca nei rispettivi dischi. Mentre Manfredi ha la cadenza raffinata dell’intellettuale che fa a pezzi il suo mondo con l’ironia da cantautore post-moderno, Gianco ha il piglio rude da vecchio rocker di razza che s’incazza e ti fa anche un po’ la morale riuscendo però a cambiare i panni obsoleti della canzone di protesta con un nuovo sguardo ludico. La forza dei due è che il loro immaginario ha sempre una controparte musicale di prima categoria. Nel 1977 c’è il nuovo Manfredi, “Zombie di tutto il mondo unitevi”, istantanea plumbea di un anno in cui la malattia è alla fase terminale, vedi alla voce terrorismo, eroina, festival pop apocalittici. Attraverso pezzi come Dagli Appennini alle bande armate, Un tranquillo festival pop di paura, Ultimo mohicano, Ogino Knaus, Feto di gruppo con signora, pulsa una vena amara e disincantata e in fondo la consapevolezza che un mondo era arrivato al giro di boa.
E infatti il 1978 sia Ricky che Gianfranco pubblicano due dischi che riflettono la grande mutazione sociale in atto. “Arcimboldo” di Gianco, suonato dalla PFM, torna, in flash evocativi come A Nervi nel ’92, su quella vena poetica che già si era affacciata nel primo disco in pezzi come Un amore e Nel mio giardino, sviluppando insieme una comunicatività pop sempre intrisa di ironia e immaginario politico-sociale nella title-track, in Vita, morte e miracoli, e Compagno sì, compagno no, compagno un caz. “Biberon” di Manfredi è il simbolo della mutazione. La poetica dell’autocritica vista da sinistra è ormai sterile tic linguistico, e si sente il franare un intero sistema, che cade su se stesso travolgendo ogni contraddizione, anche quella di chi lo criticava dall’interno (Gianfranco Salvatore racconta nel suo “Storia vera di Lucio Battisti” l’ostracismo politicizzato di Manfredi nei confronti del supremo). Ed è un disco “Biberon” però che sprigiona dei rilasci particolari, assurgendo a vero e proprio funerale di un’epoca, cose come il freaky pop di Sbrinati, o la programmatica, davvero risolutiva Mai più resistenza (“mai più resistenza/forse possiamo farne senza/mai più prigione/all’universo della sensazione”). È l’inizio del riflusso. L’estro di Manfredi esplode in mille direzioni, già giornalista, diventa autore di romanzi (una decina dal ’78 a oggi), teatro e cinema. Nel ’79 scrive la sceneggiatura e recita per il film “Liquirizia” di Samperi, e nello stesso anno esce (finita l’esperienza indie, su Philips) l’LP della colonna sonora, scritta da lui e cantata prevalentemente da Ricky Gianco, con un paio di incursioni vocali sue e di Fabio Concato. Influenze ’50/’60 e la leggerezza di sempre già calata nella Milano ’80 creativa e da bere che sta per arrivare. Nonché la presenza di uno strumentale western intitolato Arapaho che sicuramente agli Squallor non deve essere passato inosservato.
Ed è il vero inizio degli ’80 che fotografa Manfredi e Gianco nel loro approdo da perfette icone del riflusso, una destinazione naturale che salutano con i loro rispettivi album non più riusciti forse ma senz’altro i più profondi musicalmente. L’omonimo “Gianfranco Manfredi”, arrangiato da Pasquale Minieri e Maurizio Giammarco, composto con Gianco, e, tra gli altri, Jannacci e Gaber, è un gioiello di raffinata canzone generalistica, con pezzi suggestivi come Insonnia o divertiti come Allo sbando che centrano quel clima desolato e spiazzante da sospensione nel vuoto lasciato dalla fine della stagione politica. Gianco va deep in una perla di emotivi rarefatti intimisti ultramilanesi quadretti country come quelli che riempiono le stanze di “Non si può smettere di fumare”, dell’82. Prodotto da Claudio Fabi, scritto chiaramente con Manfredi, e suonato perlopiù da musicisti stranieri come Skip Battin e Chris Darrow, il disco è uno di quelli che non smette di commuovere, la title-track un manifesto esistenziale, Eclisse a Milano e Ubriaco i due inarrivabili squarci poetici, mentre Romantico e A poker con Bogart ribadiscono la contagiosa umanissima simpatia gianchiana. Poi c’è un calo di tensione, ma comunque nel contesto di una canzone sempre da tracciare, documento di due che hanno inciso il loro segno indelebile nella storia del pop italiano. E quindi il Q Disc “Università della canzonetta” di Manfredi dell’82, l’album a doppio nome (per la prima volta!) dell’85, un lato a testa, senza titolo ma ricordato poi come “Che fine ha fatto Baby Lonia?”, un terzetto di Gianco da battaglia come “Di nuca” (’89), “E’ rock’n’roll” (’91), “Piccolo è bello” (’92), con l’ultimo che apre a una detestabile politica del guest (da De André alla Gialappa’s Band passando per la famigerata Lella Costa) che fa un po’ raccapriccio, ribadita e meglio giocata nell’ultimo “Tandem”, del 2000 (ancora De André, poi Battiato, Cochi & Renato, Robert Wyatt, tra i tanti). E Manfredi? Ci ha regalato un cortocircuito memorabile recitando nell’86 in “Via Montenapoleone” di Carlo Vanzina, dove fa un intellettuale chiuso in casa che si scopa Carol Alt, nell’87 ha recitato poi in “Le vie del Signore sono finite” di Troisi, nell’89 ha scritto la sceneggiatura per la impossibile riduzione televisiva di “Valentina” di Crepax andato su Italia Uno, che era qualcosa come uno dei perfetti canti del cigno della Milano da bere, poi nei ’90 ha fatto i soggetti di fumetti come Gordon Link e Magico Vento, sbancando con il secondo, ha continuato a scrivere romanzi (per Mazzotta, Feltrinelli, Mondadori, Anabasi, Tropea), ha pubblicato un CD come “In paradiso fa troppo caldo” nel ’93, gustoso ma fuori tempo, nel 2002 la sceneggiatura per il film “Il trasformista” di Luca Barbareschi, nel 2003 ha curato molti pezzi del CD “Danni collaterali” pubblicato da Il Manifesto. Un mito. Lui e Gianco, due miti.
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Tag: Italiani Brava Gente
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