Jason Molina pt.1
Jason Molina pt.1
di Fabio Polvani

Venni a conoscenza della morte di Jason Andrew Molina dalla mail di un amico che esprimeva così il suo dispiacere: “aveva la faccia da buono”. Effettivamente, certi suoi ritratti fotografici infondevano sentimenti di umanità, mista a compassione. Fisiognomicamente parlando, non aiutavano quelle sue sopracciglia folte e spioventi, che altresì potevano anche donargli un aspetto buffo, ma che egli comunque accettava e conservava come parte integrante della sua personalità. Che il nativo di Lorain, Ohio, non avesse proprio l’aura della rockstar me ne accorsi pure di persona, l’unica volta che lo vidi suonare dal vivo, piccoletto e paonazzo per l’impeto della sua performance. Molina era consapevole di non avere quel tipo di carismatico physique du rôle e piuttosto s’immedesimava con un’ideale più vicino al country/folk, di colui che aspira ad assumere la figura di ‘uomo semplice’ del Midwest.
Il fatto tuttavia è che la sua personalità era tutt’altro che semplice. Anzitutto egli era dotato di una sensibilità straordinaria, che lo ha emancipato dagli aspetti più ottusi di una mentalità blue collar a cui comunque sentiva visceralmente di appartenere. In dote poi aveva un dono di natura, un imperfetto ma toccante timbro tenorile, capace di oscillare tra sommesse elucubrazioni e impavide proclamazioni: “the little guy with the big voice” lo definì il di lui esimio collega Mark Kozelek. Ma non solo, Jason Molina era un piccolo uomo che produceva grandi canzoni: canzoni di una bellezza difficile da sopportare, perché tanto grande era il buio che egli doveva affrontare per poi poterla cogliere. E a quel buio, quelle canzoni, con la loro bellezza, continuano ancora a resistere. […]

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