Ron Trent
Ron Trent
di Christian Zingales

A trentacinque anni dallo scioccante esordio, Ron Trent è andato costruendo un percorso discografico fitto di magnifiche curve che oggi trova nuova propulsione in “Lift Off”, appena uscito sulla olandese Rush Hour. Un album rigoglioso che incrocia con la usuale classe trentiana disco, boogie, new wave, cosmic jazz, in un’alternanza di pezzi vocali e maestosi strumentali, pezzi individuali e collaborazioni. “Quello che cerco di fare non è replicare ma assorbire queste sonorità e rifletterle con il mio sguardo”, ci dice Ron, che oltre a essere diventato un maestro di deepness, fusione e stile, un paio di anni fa ha aperto un vero e proprio nuovo capitolo nella sua saga sonica. L’album precedente a questo, “What Do The Stars Say To You”, introduceva il progetto Warm, aperto a collaborazioni prestigiose e con una palette sonica arricchita di intriganti iniezioni di jazz, ambient, balearic. Una direzione che si riverbera in “Lift Off” e che avrà prossimamente prosecuzione diretta in un nuovo Warm album. Tanto per inquadrare i parametri stilistici: “Non ho problemi con il termine afrofuturismo, abbiamo fatto la storia in quel senso, l’unica cosa è che un tempo era roba che creava veramente il futuro e ora il termine è usato generalmente per definire qualcosa di nostalgico”. E per capire che la nostalgia non è mai stato un ingrediente della musica di questo straordinario artista basta fare una carrellata del suo viaggio emozionale tra suoni ed epoche. Nato a Chicago nel 1973, debutta nel 1990 con un EP marziano sulla Warehouse di Armando e Mike Dunn: se il lato A è occupato da due tracce deep con ritmiche serrate come The Afterlife e Making Love, è il monolite che occupa il lato B, Altered States, che diventa una pietra miliare assoluta dell’old-skool con i suoi 13 minuti e mezzo che mozzano il fiato nella contrapposizione tra un reticolato di metallici jacking beats e il canto trasfigurato/trascendentale di archi elettronici che sembrano levarsi verso il cielo, un capolavoro prodotto visceralmente due anni prima della sua pubblicazione, a soli 15 anni. “Sono sempre stato appassionato di architettura e l’ispirazione per Altered States è nata camminando per Chicago, da un lato c’era la grande energia della città e dall’altro ero sovrastato da questi imponenti grattacieli”. A uscirne effettivamente è una costruzione visionaria, come fosse un grande edificio, una cattedrale urbana che comunica con il cielo, c’è l’energia cruda dell’house di Chicago spinta al limite con queste impressionanti ritmiche scalcianti e distorte, ma poi tutto è trascinato verso l’alto con quegli archi utopici che sono trascendentali e la collocano in una zona limitrofa alla techno di Detroit, pur finendo per vivere in un mondo privato lontano da tutto il resto: “L’ho vissuta all’epoca proprio come una sorta di colonna sonora urbana, nata camminando in un tour metropolitano, inebriato dall’architettura innovativa di queste costruzioni. È un pezzo molto crudo ma credo che mantenga una sua eleganza e suoni ancora all’avanguardia. Guarda al cielo, sì, credo che l’immagine del pezzo alla fine sovrapponga terra e cielo”. Mai avuto la tentazione di tornare a produrre qualcosa di crudo e techno oriented come Altered States? “Qua e là mi è capitato di fare qualcosa un po’ più spinto ritmicamente, penso all’album ‘Raw Footage’, dove ho usato quel tipo di approccio di un tempo, soprattutto ritmicamente, ma sempre nel contesto del mio suono che negli anni si è allontanato molto, è più rifinito”. […]

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